domenica 8 marzo 2015

Consapevolezza di sè, un contro-esercizio.

Uno degli aspetti peculiari di alcuni manuali che propongono esercizi per acquisire maggiore consapevolezza di se stessi e delle proprie potenzialità, per aumentare e sviluppare maggiore autostima, per "riprogrammare" il cervello in virtù di maggiore successo nella vita, vertono su un punto di partenza che reputano fondamentale: la riflessione su se stessi.

In questi casi l'agente ed il complemento oggetto coincidono e questi esercizi hanno come scopo quello di porre, metaforicamente, ma talvolta anche molto concretamente, uno specchio in cui poter vedere riflessa la propria immagine al fine di poterci lavorare sopra forgiandola secondo la forma che invece le si vuole dare.

Riflettendo su questi manuali e su questi esercizi ego-ricorsivi mi sono posta una domanda: e se invece  la chiave della risoluzione  del nodo "autostima"fosse nel capovolgere una prospettiva e anzichè focalizzare e puntare il faro su se stessi lo si spostasse completamente altrove al fine di "fare una vera esperienza di sè" concreta piuttosto che fare esperienza solo di pensieri, convincimenti, convinzioni e convenzioni puramente mentali?

Se piuttosto che partire da un pensiero si partisse dall'esperienza per poi procedere a ritroso?

"Dimenticare se stessi", mettere in un angolo per un periodo la riflessione su se stessi e mettere a tacere il nostro io che piange, che grida aiuto, che è bisognoso di riconoscimento, di carezze, non significherebbe ignorare se stessi, le proprie pulsioni, le proprie convinzioni, le proprie nevrosi, piuttosto offrirebbe l'opportunità di viverle pienamente realizzate  senza giudizi, calandosi in contesti sociali in cui la relazione con gli altri e l'esperienza diretta fornirebbe materiale su cui poter lavorare e paradossalmente farebbe emergere delle potenzialità dell'io che nemmeno pensavamo di avere.

Il non usare gli altri come specchio che riflette la propria immagine ma come oggetto verso il quale sono orientate le proprie pulsioni metterebbe il nostro ego in secondo piano al punto da creare un vuoto capace di sviluppare la capacità di ascolto ed accoglienza verso gli altri che in automatico ridimensionerebbe alquanto l'immagine che abbiamo di noi stessi. Cosìchè un complesso di inferiorità allo stesso modo di un complesso di superiorità potrebbero essere collocati in una realtà non solo mentale, ma reale, e come in un puzzle si potrebbe cercare di capire quale sia davvero il nostro posto nella realtà concreta che ci circonda. Non nella realtà che patiamo. Non nella realtà che vorremmo. Ma nella realtà che viviamo.

L'individuo è un insieme di esperienze, interiori e esteriori, e le une non possono prescindere dalle altre.
Se è vero che una volta acquisita la consapevolezza di noi stessi subentra il forte potere della volontà, è pur vero che l'esperienza stessa, l'accoglienza dell'altro, l'aprirsi ai problemi altrui, l'ascolto degli altri, il prestare aiuto agli altri, il dimenticarsi di se stessi per gli altri ha il potere di restituirci una visione più realistica e concreta di noi stessi senza la necessità di partire dalla riflessione su se stessi.
Quello che spesso manca negli esercizi di consapevolezza di se stessi è proprio il saper delineare la cornice nella quale il nostro "io" soffre, prova disagio, frustrazione, paura.
Il confronto con gli altri permette di far luce sui punti in comune con chi ci circonda e su quelli diversi totalmente ed è lì, e non nell'ano del cervello, che si gioca poi la partita del "cosa voglio davvero" che si basa sul "chi sono davvero".

Quando il metro di misura di noi stessi diventa il mondo, il mondo fatto di altre persone, di incombenze, lavoro, impegni, responsabilità, amici, famiglia e la stessa quotidianità e non ci misuriamo più su quello che vorremmo essere in teoria, o su quello che non siamo, l'immagine di noi ci apparirà più nitida e reale e la realtà è sempre modellabile, se tarata sui nostri reali limiti e sulle nostre reali potenzialità.


Una fotografia esterna non è meno importante di una "radiografia" interna perchè il processo tra pensieri ed esperienza è osmotico e non può esserci pensiero reale e concreto se non ci mettiamo a confronto con la nostra vita concreta e tangibile.


2 commenti:

  1. Concordo sul fatto che si debba acquisire consapevolezza su quello che ci sta attorno e che è parte di quello che siamo. Non so, tuttavia, se possa rappresentare la risoluzion del nodo autostima. Nel senso che, se non si ha autostima, la maggior parte delle volte non si riesce a stimare in modo 'sano' nemmeno il prossimo.

    Diciamo che consapevolezza del contesto-consapevolezza di sé-autostima per me sono più un circolo vizioso che delle relazioni di implicazioni.

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    1. Personalmente non credo che questo esercizio possa rappresentare una soluzione in toto, bensì un punto di partenza diverso rispetto a quello proposto frequentemente come inizio, ossia piuttosto che partire da una "introspezione" riuscire a partire da una "accoglienza" della realtà, che poi sarebbe in fondo osservarla, viverla e recepirla "ascoltandola". Quando non si stima in modo "sano" il prossimo è perchè spesso si oppone quell'io preponderante, onnipresente che occupa tutto quello spazio destinato all'ascolto puro che fornisce elementi preziosi per cominciare un percorso di autostima fondato sulla realtà e non sulla rappresentazione di esse. Sì, il processo contesto-consapevolezza di sè -autostima è un processo osmotico, ricorsivo, ciclico, in cui si ritorna sugli stessi elementi che però, arricchiti dell'"altro" implicano inevitabilmente il passaggio successivo.

      Grazie mille per il commento acuto e pertinente!

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